
Ogni 23 maggio di ogni anno il primo ricordo solenne che viene maggiormente è in merito alla Strage di Capaci del 1992, che per quanto possa per vari motivi sembrar lontana, in realtà è più vicina di quanto si possa pensare; è il caso del giornalista locale Orazio Vasta che racconta la sua esperienza sul posto insieme al fotografo Mario Gatto, divenendo testimoni oculari di uno scenario divenuto ormai storico.

La testimonianza di Orazio Vasta
“Quel pomeriggio del 23 maggio 1992 la terra ha tremato. Una scossa di terremoto nel Palermitano, fra Capaci e l’Isola delle Femmine. Pari al terzo grado della scala Mercalli, registrata dall’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia di Erice. C’ero anch’io. Mi trovavo in zona per il mio giornale. Allora ero corrispondente per il settimanale “Il Paese”. Ho avvertito perfettamente il tremore sotto i piedi, mancava qualche minuto alle ore 18. L’effetto terremoto durò pochi lunghi istanti. Infatti, non c’era stato nessun terremoto. Poi gli elicotteri della Polizia e dei Carabinieri. Il massiccio intervento delle autobotti dei Vigili del Fuoco e delle autoambulanze. Le auto a sirene spiegate di tutte le Forze dell’Ordine che andavano, tutte, verso l’autostrada, in direzione dello svincolo di Capaci. Un giro di telefonate fra i colleghi giornalisti e la strage si rivelava, nuda e terribile: la strage di Capaci! È stato impossibile per me raggiungere subito il sito del “botto”. Comunque, sono riuscito ad arrivare sul luogo della strage insieme al mio amico Mario Gatto, grande appassionato di fotografia. Siamo riusciti a raggiungere quel luogo attraverso un varco, chiamato il “Passaggio della lepre”. È bastato calpestare il terreno che portava verso l’autostrada per rendermi conto che tutto quello che prima avevo visto nei telegiornali, anche le immagini più cruente, lì, in quel preciso istante, non avevano lo stesso peso emotivo. Quello che stavo vivendo era spaventosamente vivido, impressionante. Man mano che mi avvicinavo all’autostrada il terreno era sempre più nero, come se fosse stato raggiunto dai lapilli dell’Etna. Gli alberi d’ulivo bruciati dal fuoco. Il messaggio biblico: “Non c’è pace fra gli ulivi!”…In questa Sicilia, colonizzata e sfruttata, sempre più attuale nella sua cruda realtà. Avvicinandomi al luogo della strage, notavo dei poliziotti della Scientifica che raccoglievano, fra i rami degli alberi bruciati, pezzetti di carne umana. Quella dei poliziotti della scorta, macellati. Dentro l’autostrada la “bocca vulcanica” dell’esplosione. Il puzzo nauseante della carne umana bruciata era insopportabile. Mario emozionatissimo, continua a scattare le sue foto. Io, giornalista “di strada”, nascondevo a malapena la rabbia, e dicevo a me stesso, quasi ossessivamente: “Tutto questo non è solo mafia, no!”. E non era solo una mia sensazione. Quando si parla oggi della Strage di Capaci, come di quella successiva che costò la vita al giudice Borsellino e alla scorta, si parla anche di ciò che viene definita la “Trattativa Stato mafia”. Un disegno che, oltre le vittime delle stragi, ha colpito il popolo siciliano, sfruttato e criminalizzato con l’infame marchio di “popolo mafioso”. Un marchio che fa comodo solo alle cosche mafiose e a chi tratta con loro“.