Mafia, criminalità organizzata e devianza nella società contemporanea. Appunti per una comprensione
Che cos’è la mafia? Quali sono le sue origini? Perché si è sviluppata soprattutto in Sicilia e non altrove? Come può essere sconfitta? Quali strategie e strumenti utilizzare per estirparla definitivamente? Tante volte abbiamo posto queste domande e cercato possibili spiegazioni. Certo, non è semplice comprendere il fenomeno mafioso, capire le cause e le origini. Intanto, bisogna tralasciare le leggendarie origini della mafia legate alle storie dei Beati Paoli, che hanno più un sapore quasi celebrativo e di auto legittimazione, un tentativo velleitario d’un improbabile riconoscimento storico-sociale di un fenomeno che invece, sin dalle sue origini, si è caratterizzato per l’uso criminale della violenza, dell’intimidazione e dell’omertà come strumenti coercitivi per controllare il territorio e dominare le comunità locali. La mafia, nel corso della sua storia, si è qualificata, soprattutto, per la capacità di adattarsi al contesto sociale e culturale, condividendo valori, riti, tradizioni, usi e costumi, linguaggi, per mimetizzarsi nella società dove operava e per creare un clima di consenso e di accettazione della sua presenza all’interno della comunità.
Ed è stata questa la sua maggiore caratteristica e pericolosità sociale: la capacità di adattarsi e al contempo di trasformarsi, pur rimanendo fedele ai suoi principi originari. Elementi distintivi perpetrati e perpetuati nei secoli, e trasmessi con il sangue, da generazione in generazione, e da famiglia a famiglia.
E a quale fine? Ecco il punto: al solo scopo di creare ricchezza, potere e protezione per i suoi affiliati. Acquisire, in maniera illegale, ingenti quantità di denaro e conquistare, in maniera egemonica e intimidatoria, maggiori consensi tra ampi strati della popolazione da legittimarne la presenza e il controllo del territorio. Anche a patto di scendere, se necessario, a compromesso con le istituzioni, centrali e locali, anzi, attraverso la collusione con il potere statale la mafia si auto legittima e si afferma nella società.
In altri termini, l’organizzazione criminale si serve dello Stato, dei suoi meccanismi di regolamentazione (elezioni democratiche), e delle amministrazioni periferiche, per consolidare il proprio consenso, acquisire sempre più potere e ottenere maggiori introiti.
La mafia, quindi, è un tipico prodotto delle società liberali e capitalistiche occidentali perché vive e si afferma all’interno delle dinamiche democratiche di ricerca del consenso e dei meccanismi elettorali tipici delle democrazie occidentali, e dei sistemi valoriali borghesi, dominati da un sistema economico che mira unicamente alla ricerca del profitto e del benessere economico e sociale. Inoltre, l’organizzazione mafiosa si espande, soprattutto, nelle “periferie” degli Stati, ai margini dei gangli del potere centrale, in mancanza di un efficace e consolidato controllo del territorio da parte delle autorità statuali, dove risultano carente o inesistenti le strutture di intermediazione sociale (sindacati, partiti, enti), dove sono scarsamente presenti le agenzie educative (scuola, parrocchie, associazioni). La mafia approfitta, inoltre, dell’incapacità dei sistemi economici di creare, attraverso, il libero mercato, un accettabile livello di benessere sociale, e della incapacità dei meccanismi di socializzazione primaria e secondaria, (famiglia e agenzie educative e culturali) di creare le condizioni per l’affermazione della cultura della legalità e di un sistema valoriale che possa contrastare la mentalità mafiosa. In poche parole, la mafia è una forma di devianza socio-culturale nata e sviluppata nella società pre-capitalistica (‘700-‘800) e capitalistica (‘900), e diffusasi soprattutto per effetto della marginalità politica e sociale della Sicilia, rispetto al baricentro istituzionale e politico dello Stato italiano. E storicamente, dal Regno delle Due Sicilie in poi, l’isola è stata sempre relegata ad un ruolo marginale, rispetto alle scelte politiche ed agli indirizzi economici della nazione. Il tutto determinato da molteplici concause, non ultime la “lontananza” fisica dai luoghi decisionali, e un ceto dirigente scarsamente preparato a governare il territorio e abituato a delegare ad altri la gestione della cosa pubblica.
Ed ecco il nocciolo della questione. Il fenomeno mafioso ha la sua originaria ragion d’essere nel rapporto di mediazione tra la proprietà e il lavoro, cioè, tra gli immensi patrimoni fondiari dei grandi feudatari e nobili della Sicilia occidentale, che incapaci di gestire i loro feudi, perché residenti nelle città, quindi assenti e lontani dai fondi agrari, e chiusi nei loro vetusti palazzi nobiliari, intendevano occuparsi d’altro, delegavano e davano in affidamento, con relativi contratti d’affitto (gabella), l’intero feudo a soggetti che detenevano ingenti capitali (gabelloti e campieri), un vero e proprio ceto emergente, che aveva una radicata presenza, una conoscenza e un controllo capillare del territorio, attraverso una fitta rete di sottoposti e subalterni, molto spesso armati, una indiscutibile capacità di gestione dei terreni e dei lavori agricoli, che si arricchirà alle spalle dei nobili e dei contadini, diventando di fatto i nuovi padroni della “Sicilia del grano”, cioè della Sicilia occidentale, dominata essenzialmente da coltivazioni estensive. Tale fenomeno era storicamente presente nella parte occidentale dell’isola, dove predominante era un’economia dei grandi latifondi e di un ceto clientelare e profittatore che si affermò con la speculazione e lo sfruttamento delle proprietà nobiliari e per il diffuso disinteresse della classe nobiliare siciliana, detentrice della maggior parte delle proprietà fondiarie, ma distratti dalla vita cittadina e da una diffusa agiatezza borghese, che li allontanava sempre più dalle reali esigenze delle campagne siciliane e dei loro abitanti. In questo contesto socio-economico si inserì il ceto emergente dei massari, gabelloti e campieri (gestori dei fondi a gabella, in affitto), cioè degli agrari, che soppianteranno i nobili e che diventeranno, nel Novecento, la nuova classe dirigente dell’isola. Diventati gli unici dominatori delle campagne, spalleggiati dai loro sgherri, uomini violenti e spregiudicati, guardie armate del latifondo, che terrorizzavano i contadini e i proprietari, venivano a patti con i briganti, amministravano una rozza giustizia che però non ammetteva alcuna forma di opposizione. I briganti, i ladri, i ribelli avevano un ambiguo rapporto con i massari.
I contadini servivano i massari e vedevano talvolta in loro degli alleati possibili contro i latifondisti che a loro volta si servivano dei massari e dei campieri, pur disprezzandoli e temendoli, come forza contro il latente pericolo costituito da possibili rivolte delle masse contadine. Massari e campieri si servivano sempre più di bande armate ben organizzate, contro nobili e contadini ma sapevano anche spazzarli via, con intransigenza e autorità, quando dovevano dimostrare a tutti gli abitanti del feudo chi comandava realmente.
Successivamente, dal dominio incontrastato delle campagne e del mondo rurale, compreso l’allevamento, le attività minerarie, la rete idrica e i trasporti, la mafia si “trasferisce” nei centri urbani, riuscendo, in breve tempo, con la forza intimidatoria delle armi, ad imporre un dominio pressoché incontrastato.
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Ma adesso è urgente, e non più rinviabile, parlare di fine della mafia. Del desiderio, cioè, di vedere una Sicilia nuova e pulita, come gli occhi dei tanti giovani, che finalmente gridano nelle piazze di tutte le città siciliane, “La mafia è una montagna di merda”. Come gridò, un giorno assai lontano, nel paese di Cinisi, in un tempo denso di paura e d’omertà, un ragazzo siciliano il cui nome era Peppino Impastato. Ma quella è “tutta un’altra storia”…